mercoledì 29 dicembre 2010

Diritto allo studio e promozione sociale: l'impossibile accordo

La scuola è considerata nell’immaginario collettivo come uno stabile organismo fondato per perseguire un compito e una finalità di ‘rilevanza sociale’: educare, allenare, ammaestrare le generazioni antecedenti alla ‘maturità’ agli elementi essenziali, dati ‘indispensabili’ [per trarre delle conclusioni], sui quali si fonda e si sorregge una particolare e ‘garbata’ forma di organizzazione sociale; affinare all’insieme delle conoscenze letterarie, scientifiche, artistiche, politiche ma anche abituare alle credenze, alle tradizioni, alle norme sociali, alla disciplina propria di un popolo in un determinato periodo storico; e ancora, avviare al possesso di una data sezione del sapere che è oggetto d’insegnamento e studio o all’esercizio di una determinata, ben definita e certa ‘professione’, che viene spesso distinta dall’insieme dei mestieri manuali.

Il complesso d’idee, d’ideali, di teorie e di finalità, ma anche la concezione del mondo e della vita, il credo e la dottrina, che costituiscono la ragion d’essere e il programma, e ad un tempo, una ‘maschera’ e una copertura, di quel gruppo politico, noto anche come ‘borghesia’ - e variamente qualificata come ‘alta’-, che si caratterizza per una propria linea culturale e ideologica sino a spingersi a costituirsi in associazioni e partiti che perseguono ‘pubblicamente’ finalità proprie della classe egemone, ‘rassicura’, con magica abilità retorica, la comunità nella sua totalità che la scuola è la sfera dove ogni individuo facente parte della società civile possiede delle cosiddette ‘pari opportunità’ di promozione sociale attraverso lo studio.

L’attività didattica degli studenti, che con regolarità si recano nei luoghi predisposti alla formazione disciplinare, e l’applicazione di queste giovani menti all’apprendimento, alla conoscenza dei soli argomenti degni di essere analizzati con lucida circospezione, da un lato, comprende il momento della vita che si frappone - e che deve essere percorso - tra uno stadio infantile, povero di rigorosa sistematicità logica, e un’altro detto ‘maturo’ dell’individuo, dove verrebbe raggiunto il pieno sviluppo delle facoltà razionali e, dall’altro, si configura come il metodo migliore in grado di provocare una scalata dei ranghi, un ascesa rispetto alla posizione, e alla relativa condizione, occupata da un individuo nella società. In tale contesto ideologico, l’università, che legalmente è l’istituzione scientifico-didattica e culturale che costituisce il più alto livello d’insegnamento scolastico e di ricerca, di fatto, lega strettamente la sua funzione a quella di macchina produttrice e selezionatrice del personale adibito a rivestire incarichi altamente professionali e a rinnovare e adattare la struttura dell’organizzazione del lavoro in base ai bisogni particolari reclamati dalla società civile. Inoltre, la possibilità di spendere il proprio percorso di studi sul mercato del lavoro prefigura al giovane studente la prospettiva di un’attività lavorativa ampiamente redditizia, che si caratterizza per il fatto di essere spesso non manuale, poco faticosa, svolta in ufficio o nello studio e che il futuro professionista sarà in grado di gestire autonomamente. L’esercitare abitualmente una professione autonoma attesta anche un certo rilievo alla propria attività: infatti, è indubbio che l’avvocatura o l’esercizio della medicina, semplicemente per una sproporzione numerica, risalti inevitabilmente rispetto agli innumerevoli mestieri manuali e non che rappresentano la maggioranza delle occupazioni della comunità.

La possibilità di progredire di grado per chi ristagna nei luoghi subalterni della gerarchia civile [come se vi fosse poi come un bisogno impulsivo di raggiungere un livello di dignità maggiore] sembrerebbe, oggi più che mai, garantita: la magniloquenza dei discorsi secondo cui debbano essere conferiti riconoscimenti materiali ed onori soltanto in rapporto ai meriti individuali è unicamente la parte visibile di quest’assicurazione.

Nondimeno, come frequentemente accade, tale parificazione ed omogeneità nei criteri utili a dispensare insieme agli onori anche vantaggi economici in grado di incidere sostanzialmente sulla qualità della vita delle persone è solo apparente e in via di diritto; ma, di fatto, è una maschera utile a tenere in piedi l’ingannevole messinscena, una tragicommedia o una triste farsa, che permette di conservare e camuffare il carattere arbitrario di una meritocrazia che, in realtà, non fa altro che continuare a far dipendere le decisioni sulla qualità delle competenze di un giovane studente dalla volontà delle classi dominanti.

Fino a quando le porte dell’istruzione superiore erano aperte di fatto solo agli strati più elevati della società, l’ingannevole illusione retorica e giuridica delle pari opportunità si saldava su un’apparenza che non evidenziava particolari distorsioni, poiché il dispositivo di selezione, non dovendo discriminare tra classi superiori e classi inferiori, mostrava di utilizzare criteri di valutazione delle capacità e delle competenze che erano stabili, sufficientemente collaudati e che, in quanto tali, sostenevano la parvenza di essere universalmente validi.

Il movimento studentesco che ha caratterizzato gli anni sessanta e settanta e i partiti ai quali il movimento faceva ‘correttamente’ riferimento si sono battuti non per smascherare gli stratagemmi usati dalla classe egemone per discriminare, marginalizzare, penalizzare le classi subalterne ma per rendere effettivo il diritto allo studio o, detto in altri termini, ciò che ogni cittadino può giustamente rivendicare di fronte alla comunità, ovvero il privilegio di poter essere giudicato dall’obiettivo meccanismo che decideva sull’avanzamento di rango dell’individuo. Tale reclamo fu appoggiato e gli studi superiori furono concessi alla maggioranza della popolazione giovanile. Il diritto allo studio si stava realmente sperimentando.

La crescita del benessere materiale portò alla formazione di una piccola e media borghesia consistente (Pasolini fa coincidere alla crescita di benessere anche una radicale ‘mutazione antropologica’ che comporta, a livello fenomenico, l’impossibilità di distinguere di fatto tra la corporatura di un operaio e quella di un funzionario bancario o un professionista) e capace di usufruire fattivamente, in concreto del diritto e dell’opportunità concessa di accedere agli studi superiori. Da ciò deriva la facile considerazione che se la quasi totalità delle nuove generazione è in grado di conseguire gli studi superiori, sia perché molte famiglie sono finalmente emancipate da uno stato di indigenza e di bisogno, sia, forse, per una maggiore propensione o volontà allo studio degli stessi giovani, questi cessano, ed è certamente un bene, di avere una natura elitaria, aristocratica, per classi privilegiate. Ciononostante, se è vero che le rivendicazioni e le lotte degli studenti avevano annullato la discriminazione di classe nell’accesso all’università, non è vero che questa fosse stata estirpata totalmente. Intatti, a tutti, come è corretto in una democrazia, è assicurata la possibilità di usufruire degli studi superiori, ma pochi possono godere di occupazioni di rilievo, da sempre ad appannaggio dell’aristocrazia. Se la classe dominante non può attuare il dispositivo di marginalizzazione su quella che ora si contraddistingue come la ‘classe media’ nell’accesso all’università, tale dispositivo sarà con tutta probabilità conservato ed attuato, o attraverso ingranaggi aggiuntivi, integrativi, secondari allorquando i nuovi laureati dovranno immettersi nel mondo lavorativo oppure, servendosi di una poco popolare, barbara e grossolana azione amministrativa, circoscrivendo e contenendo entro determinati limiti il diritto allo studio. Inoltre, attuare misure che mirano a rendere più onerosi gli studi superiori svelerebbe la natura ipocrita e dissimulatrice dei discorsi del sovrano sulle pari opportunità e sul merito. La sincerità e la lealtà con i propri elettori causerebbe la perdita del consenso e, inevitabilmente, l’indignazione e la rabbia della maggioranza che, conseguentemente, non potrebbe che riversarsi in un dissenso variamente connotato come violento, sino anche alla rivolta. L’enfasi meritocratica rassicura sulla possibilità di una scalata o semplicemente di una stabilità sociale attraverso lo studio. Le illusioni sull’avvenire di famiglie piccolo-borghesi restano così illese, integre.

Tuttavia, è la stessa realtà che palesa, scopre, rende evidente la doppiezza della recita, l’impostura e il raggiro che si cela dietro l’invenzione retorica dell’equità di giudizio basata sul merito: paurosamente, la maggioranza dei laureati non riesce più a permutare il loro titolo con una occupazione lavorativa stabile. Divenendo sempre più numerosi, il valore di scambio del attestato conferito agli studenti che hanno compiuto l’intero ciclo di studi universitari diminuisce vertiginosamente, crolla. La laurea non è più in grado di far risaltare coloro che la possiedono. La discriminazione di classe viene spostata, anche attraverso la valorizzazione degli istituti ‘privati’ e il discredito di quelli ‘pubblici’, al termine del percorso di studi, che non concedono ormai nessuna prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita. Magicamente, viene garantito il diritto allo studio in proporzione alle probabilità della classe dominante di conservare la loro autorità e direzione egemonica. Tale situazione, congiunta al carattere dislocante dell’economia capitalistica, spinge le persone ad accettare contratti lavorativi detti flessibili, garanti di un’insicurezza diffusa, dell’impossibilità di prevedere l’avvenire e di intervenire per guidare il proprio futuro, a dover assumere esse stesse una natura malleabile capace di adattarsi ad ogni possibile situazione e ambito al quale si è costretti per la semplice sussistenza, e non già in vista di un qualche benessere, ad operare.

Nell’epoca del capitalismo cognitivo e della precarizzazione del sapere si disperde, si dissolve progressivamente la speranza della classe media, divenuta piccola-borghere, di elevare il proprio status sociale mediante l’istruzione scolastica pubblica. Contemporanemente, la crescente polarizzazione e disparità nella distribuzione della ricchezza tra le fasce della popolazione potrebbe consentire alla casta dirigente la libertà di osare intraprendendo una politica di restrizioni al diritto allo studio.

In tale prospettiva, è possibile prevedere che l’attività di ricerca e di conoscenza, fonte di progresso scientifico e tecnologico, venga considerata da ampi strati della popolazione quasi come un danno monetario, uno sfavore, uno svantaggio rispetto a coloro che ritengono più opportuno iniziare a lavorare senza azzardare l’ingresso nel mondo universitario e dall’amministrazione finanziaria pubblica una spesa della quale, non avendo risultati fattuali, non ci si può permettere il lusso.

Questa previsione o premonizione anticipante, un vero e proprio flash forward dovrebbe, in qualche modo, conferire una nuova consapevolezza sulla natura e sul senso dello studiare. Da ciò può derivare anche una diversa configurazione della struttura sociale, dei suoi ruoli, dell’organizzazione del lavoro e della sua gerarchia, del merito o di quale modello di meritocrazia è giusto perseguire. Se fatalisticamente la premonizione tracciata considera tale futuro come inevitabile e suggerisce un’accettazione passiva e rassegnata dell’avvenire, è possibile e, quindi, doveroso per coloro che avvertono e subiscono il disagio di una dissennata quanto lucida linea politica provare almeno a fermare, a bloccare ed impedire il passaggio di questo maldestro destino.

Forse è quantomeno utopico o decisamente sconsiderato ritenere che il movimento studentesco, da solo, possa attuare il processo di rottura con l’ordine vigente. Ciò che questa ‘organizzazione scomposta e ingente’ può fare consiste nell’esercitare criticamente il proprio pensiero e smascherare gli inganni, gli stratagemmi, le finzioni e le coperture che la casta dei potenti dissemina sulla scena pubblica al fine di dissimulare i soprusi e il carattere aristocraticamente dispotico di una linea politica che si incide in maniera gravosa sulla vita stessa degli individui.

Forse un primo passo da promuovere sarebbe la ‘ri-concettualizzazione di ciò che gli studi rappresentano nell’immaginario collettivo’ che non può che muovere dall’esigenza di svincolare l’attività della ricerca da qualsiasi profitto che un potere monetario, politico, religioso è in grado di ottenere. Contestualmente, è nondimeno urgente rivalutare l’ideale di promozione o avanzamento sociale che domina gli individui nelle nostre società occidentali rendendoli ad un tempo esageratamente competitivi, poco inclini all’amicizia e alla mutua assistenza e sempre più insicuri e timorosi nei confronti dell’alterità, che questa sia connotata o dalla paura dell’immigrato oppure dall’incertezza del futuro propria del giovane precario.

E’ più che mai urgente promuovere una cultura interessante, critica e indisciplinata (sebbene una certa disciplina sia comunque necessaria) che sia in grado di analizzare un presente desolato, guastato, storto e di scorgere in esso la radice nascosta e rizomatica che si muove orizzontalmente lungo la storia dell’uomo. Essa riaffiora talvolta sotto il segno di un’istanza libertaria, di un bisogno impulsivo che rivendica quella debole forza messianica dell’incondizionalità del pensiero, la sola capace di mettere discussione il principio di sovranità, di supremazia, di dominio gerarchico come unica forma possibile di direzione e organizzazione della vita collettiva.

Matteo Giangrande

1 commenti:

Anonimo ha detto...

senza volontà di critica gratuita, ti invito a considerare che il debito che dimostri nei confronti di Agamben rischia di condurti fuori strada rispetto alla dimensione concreta del problema che affronti.
mi riferisco in particolare al modo piuttosto rigido con cui sembri intendere il concetto di "sovranità", e alla tentazione di svincolare il pensiero ("incondizionato"), la ricerca ("svincolata dal profitto"), l'università stessa dalla loro realtà di classe, quasi a voler contrapporre una cultura "libera" ad un potere "dispotico".
non dico che hai scritto proprio questo, dico che c'è il pericolo di una lettura del genere, rigida, binaria, molto poco dialettica a dispetto dell'elemento "rizomatico" che citi nel finale.
mi auguro comunque di leggere più spesso scritti interessanti come questo, che non possono che far del bene alla nostra università.
con simpatia