Discussione sopra Roma città aperta
Ricordiamo che cercheremo d'inserire, volta per volta, degli interventi aventi come oggetto alcuni o tutti i film del cineforum "Le scene del potere - Il potere delle scene". Inoltre potremmo ampliare gli interventi già postati in precedenza.
Se si vuole giudicare un film, in questo caso Roma città aperta, cominciando così: “Per me Rossellini …”, si deve tener conto delle parole dello stesso regista, altrimenti l‘interpretazione diventa creativa e personale.
"Hanno detto, scritto e ripetuto in tutti i toni che io ho scoperto una nuova forma di espressione: il neorealismo. E’ certamente vero, poiché, su questo punto, tutti i critici sono d’accordo e nessuno ha mai avuto ragione contro l’opinione generale. Ma io non riesco facilmente a lasciarmi convincere. Questo termine di neorealismo è nato con Roma città aperta. Successo a scoppio ritardato, come le bombe dello stesso nome. Quando fu presentato a Cannes nel 1946, il film passò totalmente inosservato. L’hanno scoperto molto più tardi e inoltre non sono sicuro che abbiano compreso le mie intenzioni. In quell’occasione mi hanno battezzato l’inventore del neorealismo italiano. Che cosa significa? Io non mi sento affatto solidale con i film che si fanno nel mio Paese. Mi sembra evidente che ciascuno possiede il suo proprio realismo e che ciascuno stima che il suo sia il migliore, me compreso. Il mio “neorealismo” personale non è nient’altro che una posizione morale che si può spiegare in tre parole: l’amore del prossimo. “Da un lato c’è Rossellini e dall’altro il cinema italiano”, così ha scritto una volta un critico nei miei riguardi, ed è terribilmente esatto. Io cerco di reagire contro la debolezza che rende gli uomini prigionieri volontari – per non dire vittime – per viltà o incoscienza, del loro desiderio di essere in armonia con tutto e tutti. Per idolatria delle regole noi viviamo nel terrore continuo di diventare l’eccezione, perché siamo abituati ad identificare l’uomo di cui si parla con l’uomo di cui si parla male”.
(Roberto Rossellini, Arts, 16 giugno 1954)
Quanto riportato sopra già basterebbe per ridimensionare tutti i discorsi fatti (subito dopo la visione del film) sulle qualità neorealiste delle riprese, quindi sull’assenza oppure la presenza di qualche messaggio-ideologia sostanzialmente pessimista o ottimista... Tuttavia il regista sembra lamentarsi più che altro – con vena provocatoria - della cecità della critica italiana che ha saputo riconoscere il valore di Roma città aperta, appunto come opera fondamentale del neorealismo (cinematografico) italiano, solo quando già all’estero era un'opera acclamata. Credo che Rossellini non si sia svegliato da un giorno all’altro con la parola “neorealismo” in bocca per poi fare quel che ha fatto. Più sensato è pensare che a una sua esigenza emotiva e intellettuale, comprensibile per i tempi che correvano e per certa cultura che imperversava, abbia fatto seguito, coscientemente, tutto il suo lavoro che, poi, hanno chiamato “neorealismo”. Questo è chiaro.
Lo stesso regista disse: “Mi sono sempre sforzato di dire che per me il neorealismo era solo una posizione morale. La posizione morale era di obbiettivamente mettersi a guardare le cose e di mettere insieme gli elementi che componevano le cose, senza cercare di portarci nessunissimo giudizio. Perché le cose, in sé, hanno il loro giudizio. E siccome io odio tutto ciò che è sopraffazione, questo proprio d’istinto…, questo è stato l’inizio. Poi piano piano queste cose mi si sono profondamente radicate e son diventate molto chiare per me. Cioè, quello che facevo per istinto, poi piano piano l’ho fatto per coscienza. Quando avvenne questo passaggio, è un po’ difficile per me definirlo…”. E ancora: “Io sono continuamente immerso nella ricerca tecnica, perché cerco – sono un operaio – di crearmi uno strumento il più agile possibile. Cerco sempre di arrivare alla matita. Per arrivare alla matita bisogna liberarsi degli schemi e delle necessità produttive del capitale. Una delle prime cose è ridurre i costi di produzione. Per ridurre i costi di produzione, bisogna accelerare i tempi di produzione, bisogna fare a meno di tante cose. Ecco, per esempio, fare a meno delle costruzioni, i non attori… Quello che si è detto a proposito del neorealismo vi posso giurare che è completamente falso. ‘Roma città aperta’, il neorealismo – si è detto – siccome non c’erano i mezzi, allora si sono dovuti adattare ai mezzi di cui disponevano ed è nato il neorealismo, cioè la verità: i muri veri, la gente vera, lo zozzo vero, ecc. No, è stata invece una scelta proprio chiarissima e determinata, perché questo l’ho fatto, ho cercato di farlo e l’ho fatto prima di arrivare a ‘Roma città aperta’. La verità vera è questa: che il rito del cinema si celebrava nel tempio che era il teatro di posa. E il teatro di posa era nelle mani del padrone del teatro di posa, il quale per autorizzarti l’ingresso, ti faceva pagare quello che voleva lui. E allora, siccome si stava con la mania della fotografia assolutamente perfetta e il pan focus e le cosine ecc., io ho rifiutato tutto questo. La cosa per me più importante era di dire le cose che volevo dire.
Il cinema l’ho inteso istintivamente, come mezzo per affrontare la vita reale, quindi per avvicinarci alle cose vere, in un certo campo. Infatti per me il neorealismo era, veramente, una posizione morale e lo sforzo preciso di apprendere: nient’altro che questo. Poi mi sono accorto che il cinema contiene troppa suggestione, ed essendo troppo suggestivo facilmente si mitizza, e si teorizza troppo sui suoi prodotti. Così a mano a mano che questo istinto è diventato più maturo, l’ho razionalizzato, ho cercato anche di razionalizzare le mie azioni. In questo consiste il punto di passaggio tra i due modi di fare il cinema”.
(Roberto Rossellini, in Pio Baldelli, Roberto Rossellini, Samonà e Savelli)
Anche questa è una critica, rivolta ora al mondo del cinema conformista dei “telefoni bianchi” che rappresentava in modo edulcorato i rapporti fra le classi, privilegiando i ceti più ricchi e i loro rapporti con la borghesia, mentre la classe proletaria veniva dimenticata almeno negli ambienti culturali. Forse il rischio più grande era che gli stessi proletari credevano in ciò che vedevano e rincorrevano quelle stesse immagini, strattonando le proprie radici e rischiando, così, di ritrovarsi su di un terreno non adatto. Così come accade oggi, in gran parte, per colpa della televisione commerciale: il borghese (cioè il povero di allora senza averne più i caratteri sostanzialmente) che crede di star bene perché fa propria l’estetica proposta dalla televisione, oppure gli immigrati che rischiano la vita per arrivare in Italia, spinti dal sogno di ricchezza visto solo in tv. Una critica che definisce precisamente l’idea del cinema che aveva Rossellini: il regista, così dicendo, si riappropria del termine “neorealismo”.
“Sono un realizzatore di film, non un esteta, e non credo di sapere indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire però come io lo sento, qual è l’idea che io me ne sono fatta.
Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno che è proprio dell’uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà qualunque essa sia.
Dare il vero valore a una qualsiasi cosa, significa averne appreso il senso autentico e universale. V’è tuttora chi pensa al realismo come a qualcosa di esteriore, come ad una uscita all’aperto, come ad una contemplazione di stracci e di sofferenze. Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostruita, si raggiunge l’espressione. Se è una verità spacciata, se ne sente la falsità e la espressione non è raggiunta.
Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi pre-costituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi.
Il film realistico è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuol fare ragionare.
Noi ci siamo posti, nel dopoguerra, proprio di fronte a questo impegno. Per noi contava la ricerca della verità. La rispondenza con la realtà. Per i primi registi italiani, detti neorealisti, si è trattato di un vero e proprio atto di coraggio, e questo nessuno può negarlo. Poi, dietro coloro che potrebbero essere definiti come innovatori sono venuti i volgarizzatori: essi sono forse anche più importanti, hanno seminato il neorealismo ad una comprensione più larga. Poi, come è fatale. Arrivano anche i travisamenti e le deviazioni. Ma il neorealismo aveva compiuto ormai buona parte del suo cammino. […]
Con ‘Roma città aperta’ il così detto neorealismo si è rivelato, in modo più impressionante, al mondo. Da allora e dai miei primi documentari, v’è stata una sola, unica linea pur attraverso differenti ricerche. Non ho formule o preconcetti, ma se guardo a ritroso i miei film indubbiamente vi riscontro degli elementi che sono in essi costanti e che vi sono ripetuti non programmaticamente, ma naturalmente. Anzitutto la “coralità”. Il film realistico è in sé corale (i marinai di Nave Bianca contano quanto la popolazione di Roma città aperta, quanto i partigiani di Paisà e i frati del Giullare).
Poi la maniera “documentaria” di osservare e analizzare; quindi il ritorno continuo, anche nella documentazione più stretta, alla “fantasia” poiché nell’uomo v’è una parte che tende al concreto e un’altra che spinge verso l’immaginazione. La prima tendenza non deve soffocare la seconda. In fine la “religiosità”. Nel racconto cinematografico è essenziale “l’attesa”: ogni soluzione nasce dall’attesa. E’ l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà. L’attesa che, dopo la preparazione, dà la liberazione.”
(Roberto Rossellini, in Retrospettive N. 4, aprile 1953)
M’interessa riprendere l’argomento che ha infervorato tanto gli animi: Rossellini propone un messaggio-ideologia con questo film? Personalmente credo che un messaggio lo voglia dare, altrimenti se ne sarebbe stato a poltrire invece di finire quasi sul lastrico per realizzare le sue opere. Più sensato sarebbe chiedersi: Roma città aperta propone un messaggio-ideologia precisa allo spettatore? Modificando così la domanda ci togliamo dall’imbarazzo, perché un’opera, dal momento in cui è offerta al pubblico, guadagna la sua autonomia dal produttore. Tuttavia si deve tener presente l’origine di quell’opera se non si vuole fraintenderla ma capirla davvero. Quindi cercherò di rispondere alla domanda muovendomi tra le posizioni del regista desunte da stralci di interviste (tra le quali anche quelle sopra riportate) e commenti di critici a lui contemporanei e dal film stesso. In primo luogo, vorrei distinguere i termini messaggio e ideologia: il primo è una proposta di approfondita riflessione su un argomento; il secondo è già l’insieme delle idee e della mentalità proprie di una società o il sistema concettuale alla base di una concezione politica, religiosa ecc. Si può dire che sono due momenti diversi della stessa cosa, il messaggio precede o dovrebbe l’ideologia, la quale logicamente comprende ciò che la precede. Per questo è più facile che sia deviata un’ideologia che un messaggio. Faccio un esempio banale e personale: credo ci sia differenza tra il messaggio cristiano e la Chiesa Cattolica; la Chiesa si basa oramai su un’ideologia che è quella cristiana (se così non fosse, non assisteremmo a tutte le contraddizioni che la contraddistinguono). Ancora, io non credente posso arrivare autonomamente e laicamente al messaggio cristiano di carità aiutando, per esempio, un sofferente; la vedo più dura arrivare a concetti laici partendo da un’ideologia come quella della Chiesa Cattolica: vedi l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del suicidio o dell’eutanasia - cioè situazioni che presuppongono dei sofferenti - casi, questi, presenti nella Bibbia e accettati o almeno non criticati esplicitamente e a volte neanche implicitamente (Sansone, Razis, Raul …). Spero di aver chiarito la distinzione che ho in mente. Ora, se mi è ancora difficile definire il messaggio del regista, più semplice mi è parlare delle ideologie che (presumibilmente) sembrano far muovere il film. Parlerò di queste, perché nella discussione qualcuno ha nominato il marxismo, qualcun altro il cristianesimo (qualcun altro ancora l’ebraismo…).
Nella scena in cui il tipografo Francesco e Pina (Anna Magnani) sono seduti sulle scalinate del palazzo, quando lei parla dei tempi felici che furono e, lui, dei tempi felici che faticosamente saranno, il primo sembra parlare la lingua dei comunisti; è pur vero che egli esplicitamente si distingue dall’amico Ing. Manfredi, perché questo ha studiato… Insomma, a me sembra che l’unico che nel film poteva esser mosso realmente dall’ideologia comunista fa una brutta, ma dignitosa, fine, l’Ing. Manfredi appunto. I più che combattevano contro i fascisti non erano comunisti ma anti-fascisti, che è diverso e anche più naturale. La loro ideologia era la speranza di poter tornare a vivere serenamente come prima, senza ulteriori sofismi. Se proprio si vuole trovare un’ideologia preponderante, va ricercata nella figura di Don Pietro Pellegrini (figura ispirata ad un personaggio realmente esistito: don Luigi Morosini), il quale non era certamente comunista, ma aiutava i bisognosi, sia il partigiano rosso che il nazista pentito. Tuttavia, la sua è una figura forte perché è portatrice del messaggio cristiano di carità, che è sempre anarchico!, ma non di una ideologia cristiana (mi viene da pensare al Sillabo di ottanta “principali errori dell’età nostra”, pubblicato da Pio IX nel 1864, in cui si condannavano oltre al panteismo, razionalismo, liberalismo, indifferentismo, latitudinarismo anche il socialismo e il comunismo - quando ancora si esprime chiaramente su vicende ambigue che riguardano ad esempio l’Olocausto). Per ridimensionare quanto ho detto:
“L’esperienza religiosa non l’ho mai avuta, dico la verità. Logicamente, sono nato in Italia… sono cresciuto italiano, respirando, per forza, un’atmosfera cattolica. E quindi io non rifiuto assolutamente questa radice culturale, perché è una delle mie radici culturali. Ma non ho mai creduto, non ho mai avuto fede. Ho avuto, così, un momento molto drammatico nella mia vita quando ho perso un figlio che aveva nove anni. E allora, lì, logicamente mi sono posto tutte le domande… Mi sembra che per affrontare la morte… c’è bisogno di una dose di eroismo gigantesco. Allora ho cercato disperatamente delle consolazioni. E dove le trovi? Le trovi o nella realtà-realtà, cioè immaginare la vita come un fenomeno biologico di una precisione scientifica ecc., con tutte le sue coordinate; o nell’altro aspetto, che è tutto metafisico. Sono stato in una tempesta, direi enorme, in questo periodo, però mi pare chiaro che ho accettato la parte biologica invece che l’altra parte. E poi… forse, proprio dall’educazione cattolica, cristiana, che ho avuto, mi è nato questo ideale dell’eroe: ossia, rischiare tutto; che mi pare una cosa molto importante. Per me è il rischio, il rischio continuo: cioè non annoiarmi mai: ecco, lo metto in altri termini”(1971)
Per arricchire ancora di più il discorso sulle ideologie: “ Se avete un’idea preconcetta, fate la dimostrazione di una tesi. E’ la violazione della verità, ed è anche la violazione dell’istruzione. Sì, il mio cinema può essere definito un cinema dell’attenzione, della constatazione. Quando guardiamo un essere umano, che cosa abbiamo? La sua intelligenza, il suo desiderio di agire, e poi le sue immense debolezze, la sua povertà. In fin dei conti le cose diventano grandiose proprio per questo… Ciò che è commuovente è la fragilità dell’uomo, non è la sua forza. Nella vita moderna l’uomo ha perduto ogni sentimento eroico della vita. Bisogna ridarglielo, perché l’uomo è un eroe. Ogni uomo è un eroe. La lotta quotidiana è una lotta eroica. Per descrivere questo bisogna partire dal basso…
Bisogna conoscere le cose al di fuori di ogni ideologia. Ogni ideologia è un prisma. Credo che si possa vedere senza uno di questi prismi; se non lo credessi non mi sarei reso la vita così difficile. Il punto di partenza è qui, e può essere giusto o completamente falso: o si ha fiducia nell’uomo o non si ha fiducia nell’uomo. Se si ha fiducia nell’uomo, allora si può pensare l’uomo capace di tutto il bene possibile. Io credo che l’uomo sia capace di tutto il bene possibile, se sa… Ogni ideologia ha del buono e del cattivo; ma essa vi limita nella vostra libertà. E la libertà è il centro e il motore di tutto. Se giungete a una scoperta da liberi è una cosa formidabile; se arrivate ad essere perfetti nel conformismo, ciò non ha nulla di eroico. E ciò che mi preoccupa è di dare questo senso eroico alla vita… Se l’uomo ha una capacità, credo sia questa: la scoperta della morale. Prendiamo Hitler: induce la gente ad obbedire. I suo tedeschi sono nella morale perché obbediscono. Il pericolo diventa gravosissimo. Se l’uomo è capace di fare la scelta, allora diventa uomo. Ma questa scelta deve partire da una libertà totale. Correndo tutti i rischi degli errori, dell’avventura. E anche il rischio di perdersi. E’ in ciò che egli diventa eroico. Che cos’è un santo? E’ colui che ha corso il rischio di perdersi. E’ sempre al limite di perdersi. Un piccolo passo falso può farlo ruzzolare. La sola facoltà che appartiene all’uomo e solo a lui, è la facoltà di giudizio. Tutti gli altri comportamenti dell’uomo li ritrovate presso l’animale, a diversi gradi più o meno sviluppati: l’obbedienza, l’abitudine… L’animale ha delle direzioni che gli vengono dall’istinto o dai tropismi. Si dirige verso le cose che gli sono semplicemente, praticamente, convenienti. La vita non deve essere soltanto un fatto pratico. Oggi si è creato questo mito pragmatico della vita. Che cosa è diventata la morale? E’ questo che è grave. L’eroismo non è mai un fatto individuale. Ogni individuo deve armonizzarsi. Come? Attraverso la tolleranza. E’ una virtù che nasce da una profonda saggezza. Essere tolleranti vuol dire uscire dalla obbedienza per arrivare a qualche cosa che parte dalla vostra coscienza. Ciò che è grave nel mondo d’oggi è che si vive di classificazioni. La classificazione non porta alla conoscenza, quindi non porta a questo bisogno eroico di perfezionarsi”(1966).
Di nuovo, qual è il messaggio che il film propone? Non aspettativi da me una risposta definitoria, e sarà difficile estrapolarla dal regista, oggi.
Sicuramente i fatti così com’erano, dei quali il film è rappresentazione, ci fanno ragionare sulla guerra, quindi sul potere. “Dov’è il potere in questo film?”, chiedeva qualcuno degli spettatori durante la discussione. Non credo sia utile indicarli nel film, né formulare una risposta da dizionario prendendo come base lo stesso. ‘Roma città aperta’ si esprime con una potente forza emotiva, che il documentario non riesce sempre ad avere, oltre a presentare un attenzione per la realtà che spesso i film non hanno: come nella tragedia greca, offre l’occasione per una catarsi e un primo approccio riflessivo di quel periodo storico: offre, quindi, molti spunti per delle riflessioni più ampie sul potere che vanno fatte, senza pretendere, però, di confermale con la pellicola stessa. Per questo non me la sento di azzardare discorsi più seri sul potere, anche perché non credo di poterlo fare ragionevolmente.
Concludo volendo precisare che ho inserito questi stralci di interviste o articoli, senza tagliarli ulteriormente, affinché vi facciate una vostra opinione; non è detto che io sia d’accordo con tutto quello che dice il regista, anzi, come succede spesso, a far parlare un artista fuori dal contesto a lui congeniale si rimane delusi.
Invito, però, coloro che ancora non hanno visto il film di cui ho scritto a vederlo al più presto.
P.S. Il responsabile di questo intervento è il sottoscritto e non direttamente l'associazione: rivolgete a me tutte le correzioni, gli appunti, le critiche, le offese o le minacce... Mi scuso se ci sono errori nel testo o pezzi mancanti, ma ho avuto problemi tecnici: questo blog sembra non sopportare le virgolette basse e il formato Word, quindi ho dovuto formattare il testo e riscrivere tutte le parole contenute nelle virgolette basse che erano misteriosamente venute a mancare, virgolettandole in diverso modo.
Se si vuole giudicare un film, in questo caso Roma città aperta, cominciando così: “Per me Rossellini …”, si deve tener conto delle parole dello stesso regista, altrimenti l‘interpretazione diventa creativa e personale.
"Hanno detto, scritto e ripetuto in tutti i toni che io ho scoperto una nuova forma di espressione: il neorealismo. E’ certamente vero, poiché, su questo punto, tutti i critici sono d’accordo e nessuno ha mai avuto ragione contro l’opinione generale. Ma io non riesco facilmente a lasciarmi convincere. Questo termine di neorealismo è nato con Roma città aperta. Successo a scoppio ritardato, come le bombe dello stesso nome. Quando fu presentato a Cannes nel 1946, il film passò totalmente inosservato. L’hanno scoperto molto più tardi e inoltre non sono sicuro che abbiano compreso le mie intenzioni. In quell’occasione mi hanno battezzato l’inventore del neorealismo italiano. Che cosa significa? Io non mi sento affatto solidale con i film che si fanno nel mio Paese. Mi sembra evidente che ciascuno possiede il suo proprio realismo e che ciascuno stima che il suo sia il migliore, me compreso. Il mio “neorealismo” personale non è nient’altro che una posizione morale che si può spiegare in tre parole: l’amore del prossimo. “Da un lato c’è Rossellini e dall’altro il cinema italiano”, così ha scritto una volta un critico nei miei riguardi, ed è terribilmente esatto. Io cerco di reagire contro la debolezza che rende gli uomini prigionieri volontari – per non dire vittime – per viltà o incoscienza, del loro desiderio di essere in armonia con tutto e tutti. Per idolatria delle regole noi viviamo nel terrore continuo di diventare l’eccezione, perché siamo abituati ad identificare l’uomo di cui si parla con l’uomo di cui si parla male”.
(Roberto Rossellini, Arts, 16 giugno 1954)
Quanto riportato sopra già basterebbe per ridimensionare tutti i discorsi fatti (subito dopo la visione del film) sulle qualità neorealiste delle riprese, quindi sull’assenza oppure la presenza di qualche messaggio-ideologia sostanzialmente pessimista o ottimista... Tuttavia il regista sembra lamentarsi più che altro – con vena provocatoria - della cecità della critica italiana che ha saputo riconoscere il valore di Roma città aperta, appunto come opera fondamentale del neorealismo (cinematografico) italiano, solo quando già all’estero era un'opera acclamata. Credo che Rossellini non si sia svegliato da un giorno all’altro con la parola “neorealismo” in bocca per poi fare quel che ha fatto. Più sensato è pensare che a una sua esigenza emotiva e intellettuale, comprensibile per i tempi che correvano e per certa cultura che imperversava, abbia fatto seguito, coscientemente, tutto il suo lavoro che, poi, hanno chiamato “neorealismo”. Questo è chiaro.
Lo stesso regista disse: “Mi sono sempre sforzato di dire che per me il neorealismo era solo una posizione morale. La posizione morale era di obbiettivamente mettersi a guardare le cose e di mettere insieme gli elementi che componevano le cose, senza cercare di portarci nessunissimo giudizio. Perché le cose, in sé, hanno il loro giudizio. E siccome io odio tutto ciò che è sopraffazione, questo proprio d’istinto…, questo è stato l’inizio. Poi piano piano queste cose mi si sono profondamente radicate e son diventate molto chiare per me. Cioè, quello che facevo per istinto, poi piano piano l’ho fatto per coscienza. Quando avvenne questo passaggio, è un po’ difficile per me definirlo…”. E ancora: “Io sono continuamente immerso nella ricerca tecnica, perché cerco – sono un operaio – di crearmi uno strumento il più agile possibile. Cerco sempre di arrivare alla matita. Per arrivare alla matita bisogna liberarsi degli schemi e delle necessità produttive del capitale. Una delle prime cose è ridurre i costi di produzione. Per ridurre i costi di produzione, bisogna accelerare i tempi di produzione, bisogna fare a meno di tante cose. Ecco, per esempio, fare a meno delle costruzioni, i non attori… Quello che si è detto a proposito del neorealismo vi posso giurare che è completamente falso. ‘Roma città aperta’, il neorealismo – si è detto – siccome non c’erano i mezzi, allora si sono dovuti adattare ai mezzi di cui disponevano ed è nato il neorealismo, cioè la verità: i muri veri, la gente vera, lo zozzo vero, ecc. No, è stata invece una scelta proprio chiarissima e determinata, perché questo l’ho fatto, ho cercato di farlo e l’ho fatto prima di arrivare a ‘Roma città aperta’. La verità vera è questa: che il rito del cinema si celebrava nel tempio che era il teatro di posa. E il teatro di posa era nelle mani del padrone del teatro di posa, il quale per autorizzarti l’ingresso, ti faceva pagare quello che voleva lui. E allora, siccome si stava con la mania della fotografia assolutamente perfetta e il pan focus e le cosine ecc., io ho rifiutato tutto questo. La cosa per me più importante era di dire le cose che volevo dire.
Il cinema l’ho inteso istintivamente, come mezzo per affrontare la vita reale, quindi per avvicinarci alle cose vere, in un certo campo. Infatti per me il neorealismo era, veramente, una posizione morale e lo sforzo preciso di apprendere: nient’altro che questo. Poi mi sono accorto che il cinema contiene troppa suggestione, ed essendo troppo suggestivo facilmente si mitizza, e si teorizza troppo sui suoi prodotti. Così a mano a mano che questo istinto è diventato più maturo, l’ho razionalizzato, ho cercato anche di razionalizzare le mie azioni. In questo consiste il punto di passaggio tra i due modi di fare il cinema”.
(Roberto Rossellini, in Pio Baldelli, Roberto Rossellini, Samonà e Savelli)
Anche questa è una critica, rivolta ora al mondo del cinema conformista dei “telefoni bianchi” che rappresentava in modo edulcorato i rapporti fra le classi, privilegiando i ceti più ricchi e i loro rapporti con la borghesia, mentre la classe proletaria veniva dimenticata almeno negli ambienti culturali. Forse il rischio più grande era che gli stessi proletari credevano in ciò che vedevano e rincorrevano quelle stesse immagini, strattonando le proprie radici e rischiando, così, di ritrovarsi su di un terreno non adatto. Così come accade oggi, in gran parte, per colpa della televisione commerciale: il borghese (cioè il povero di allora senza averne più i caratteri sostanzialmente) che crede di star bene perché fa propria l’estetica proposta dalla televisione, oppure gli immigrati che rischiano la vita per arrivare in Italia, spinti dal sogno di ricchezza visto solo in tv. Una critica che definisce precisamente l’idea del cinema che aveva Rossellini: il regista, così dicendo, si riappropria del termine “neorealismo”.
“Sono un realizzatore di film, non un esteta, e non credo di sapere indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire però come io lo sento, qual è l’idea che io me ne sono fatta.
Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno che è proprio dell’uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà qualunque essa sia.
Dare il vero valore a una qualsiasi cosa, significa averne appreso il senso autentico e universale. V’è tuttora chi pensa al realismo come a qualcosa di esteriore, come ad una uscita all’aperto, come ad una contemplazione di stracci e di sofferenze. Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostruita, si raggiunge l’espressione. Se è una verità spacciata, se ne sente la falsità e la espressione non è raggiunta.
Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi pre-costituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi.
Il film realistico è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuol fare ragionare.
Noi ci siamo posti, nel dopoguerra, proprio di fronte a questo impegno. Per noi contava la ricerca della verità. La rispondenza con la realtà. Per i primi registi italiani, detti neorealisti, si è trattato di un vero e proprio atto di coraggio, e questo nessuno può negarlo. Poi, dietro coloro che potrebbero essere definiti come innovatori sono venuti i volgarizzatori: essi sono forse anche più importanti, hanno seminato il neorealismo ad una comprensione più larga. Poi, come è fatale. Arrivano anche i travisamenti e le deviazioni. Ma il neorealismo aveva compiuto ormai buona parte del suo cammino. […]
Con ‘Roma città aperta’ il così detto neorealismo si è rivelato, in modo più impressionante, al mondo. Da allora e dai miei primi documentari, v’è stata una sola, unica linea pur attraverso differenti ricerche. Non ho formule o preconcetti, ma se guardo a ritroso i miei film indubbiamente vi riscontro degli elementi che sono in essi costanti e che vi sono ripetuti non programmaticamente, ma naturalmente. Anzitutto la “coralità”. Il film realistico è in sé corale (i marinai di Nave Bianca contano quanto la popolazione di Roma città aperta, quanto i partigiani di Paisà e i frati del Giullare).
Poi la maniera “documentaria” di osservare e analizzare; quindi il ritorno continuo, anche nella documentazione più stretta, alla “fantasia” poiché nell’uomo v’è una parte che tende al concreto e un’altra che spinge verso l’immaginazione. La prima tendenza non deve soffocare la seconda. In fine la “religiosità”. Nel racconto cinematografico è essenziale “l’attesa”: ogni soluzione nasce dall’attesa. E’ l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà. L’attesa che, dopo la preparazione, dà la liberazione.”
(Roberto Rossellini, in Retrospettive N. 4, aprile 1953)
M’interessa riprendere l’argomento che ha infervorato tanto gli animi: Rossellini propone un messaggio-ideologia con questo film? Personalmente credo che un messaggio lo voglia dare, altrimenti se ne sarebbe stato a poltrire invece di finire quasi sul lastrico per realizzare le sue opere. Più sensato sarebbe chiedersi: Roma città aperta propone un messaggio-ideologia precisa allo spettatore? Modificando così la domanda ci togliamo dall’imbarazzo, perché un’opera, dal momento in cui è offerta al pubblico, guadagna la sua autonomia dal produttore. Tuttavia si deve tener presente l’origine di quell’opera se non si vuole fraintenderla ma capirla davvero. Quindi cercherò di rispondere alla domanda muovendomi tra le posizioni del regista desunte da stralci di interviste (tra le quali anche quelle sopra riportate) e commenti di critici a lui contemporanei e dal film stesso. In primo luogo, vorrei distinguere i termini messaggio e ideologia: il primo è una proposta di approfondita riflessione su un argomento; il secondo è già l’insieme delle idee e della mentalità proprie di una società o il sistema concettuale alla base di una concezione politica, religiosa ecc. Si può dire che sono due momenti diversi della stessa cosa, il messaggio precede o dovrebbe l’ideologia, la quale logicamente comprende ciò che la precede. Per questo è più facile che sia deviata un’ideologia che un messaggio. Faccio un esempio banale e personale: credo ci sia differenza tra il messaggio cristiano e la Chiesa Cattolica; la Chiesa si basa oramai su un’ideologia che è quella cristiana (se così non fosse, non assisteremmo a tutte le contraddizioni che la contraddistinguono). Ancora, io non credente posso arrivare autonomamente e laicamente al messaggio cristiano di carità aiutando, per esempio, un sofferente; la vedo più dura arrivare a concetti laici partendo da un’ideologia come quella della Chiesa Cattolica: vedi l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del suicidio o dell’eutanasia - cioè situazioni che presuppongono dei sofferenti - casi, questi, presenti nella Bibbia e accettati o almeno non criticati esplicitamente e a volte neanche implicitamente (Sansone, Razis, Raul …). Spero di aver chiarito la distinzione che ho in mente. Ora, se mi è ancora difficile definire il messaggio del regista, più semplice mi è parlare delle ideologie che (presumibilmente) sembrano far muovere il film. Parlerò di queste, perché nella discussione qualcuno ha nominato il marxismo, qualcun altro il cristianesimo (qualcun altro ancora l’ebraismo…).
Nella scena in cui il tipografo Francesco e Pina (Anna Magnani) sono seduti sulle scalinate del palazzo, quando lei parla dei tempi felici che furono e, lui, dei tempi felici che faticosamente saranno, il primo sembra parlare la lingua dei comunisti; è pur vero che egli esplicitamente si distingue dall’amico Ing. Manfredi, perché questo ha studiato… Insomma, a me sembra che l’unico che nel film poteva esser mosso realmente dall’ideologia comunista fa una brutta, ma dignitosa, fine, l’Ing. Manfredi appunto. I più che combattevano contro i fascisti non erano comunisti ma anti-fascisti, che è diverso e anche più naturale. La loro ideologia era la speranza di poter tornare a vivere serenamente come prima, senza ulteriori sofismi. Se proprio si vuole trovare un’ideologia preponderante, va ricercata nella figura di Don Pietro Pellegrini (figura ispirata ad un personaggio realmente esistito: don Luigi Morosini), il quale non era certamente comunista, ma aiutava i bisognosi, sia il partigiano rosso che il nazista pentito. Tuttavia, la sua è una figura forte perché è portatrice del messaggio cristiano di carità, che è sempre anarchico!, ma non di una ideologia cristiana (mi viene da pensare al Sillabo di ottanta “principali errori dell’età nostra”, pubblicato da Pio IX nel 1864, in cui si condannavano oltre al panteismo, razionalismo, liberalismo, indifferentismo, latitudinarismo anche il socialismo e il comunismo - quando ancora si esprime chiaramente su vicende ambigue che riguardano ad esempio l’Olocausto). Per ridimensionare quanto ho detto:
“L’esperienza religiosa non l’ho mai avuta, dico la verità. Logicamente, sono nato in Italia… sono cresciuto italiano, respirando, per forza, un’atmosfera cattolica. E quindi io non rifiuto assolutamente questa radice culturale, perché è una delle mie radici culturali. Ma non ho mai creduto, non ho mai avuto fede. Ho avuto, così, un momento molto drammatico nella mia vita quando ho perso un figlio che aveva nove anni. E allora, lì, logicamente mi sono posto tutte le domande… Mi sembra che per affrontare la morte… c’è bisogno di una dose di eroismo gigantesco. Allora ho cercato disperatamente delle consolazioni. E dove le trovi? Le trovi o nella realtà-realtà, cioè immaginare la vita come un fenomeno biologico di una precisione scientifica ecc., con tutte le sue coordinate; o nell’altro aspetto, che è tutto metafisico. Sono stato in una tempesta, direi enorme, in questo periodo, però mi pare chiaro che ho accettato la parte biologica invece che l’altra parte. E poi… forse, proprio dall’educazione cattolica, cristiana, che ho avuto, mi è nato questo ideale dell’eroe: ossia, rischiare tutto; che mi pare una cosa molto importante. Per me è il rischio, il rischio continuo: cioè non annoiarmi mai: ecco, lo metto in altri termini”(1971)
Per arricchire ancora di più il discorso sulle ideologie: “ Se avete un’idea preconcetta, fate la dimostrazione di una tesi. E’ la violazione della verità, ed è anche la violazione dell’istruzione. Sì, il mio cinema può essere definito un cinema dell’attenzione, della constatazione. Quando guardiamo un essere umano, che cosa abbiamo? La sua intelligenza, il suo desiderio di agire, e poi le sue immense debolezze, la sua povertà. In fin dei conti le cose diventano grandiose proprio per questo… Ciò che è commuovente è la fragilità dell’uomo, non è la sua forza. Nella vita moderna l’uomo ha perduto ogni sentimento eroico della vita. Bisogna ridarglielo, perché l’uomo è un eroe. Ogni uomo è un eroe. La lotta quotidiana è una lotta eroica. Per descrivere questo bisogna partire dal basso…
Bisogna conoscere le cose al di fuori di ogni ideologia. Ogni ideologia è un prisma. Credo che si possa vedere senza uno di questi prismi; se non lo credessi non mi sarei reso la vita così difficile. Il punto di partenza è qui, e può essere giusto o completamente falso: o si ha fiducia nell’uomo o non si ha fiducia nell’uomo. Se si ha fiducia nell’uomo, allora si può pensare l’uomo capace di tutto il bene possibile. Io credo che l’uomo sia capace di tutto il bene possibile, se sa… Ogni ideologia ha del buono e del cattivo; ma essa vi limita nella vostra libertà. E la libertà è il centro e il motore di tutto. Se giungete a una scoperta da liberi è una cosa formidabile; se arrivate ad essere perfetti nel conformismo, ciò non ha nulla di eroico. E ciò che mi preoccupa è di dare questo senso eroico alla vita… Se l’uomo ha una capacità, credo sia questa: la scoperta della morale. Prendiamo Hitler: induce la gente ad obbedire. I suo tedeschi sono nella morale perché obbediscono. Il pericolo diventa gravosissimo. Se l’uomo è capace di fare la scelta, allora diventa uomo. Ma questa scelta deve partire da una libertà totale. Correndo tutti i rischi degli errori, dell’avventura. E anche il rischio di perdersi. E’ in ciò che egli diventa eroico. Che cos’è un santo? E’ colui che ha corso il rischio di perdersi. E’ sempre al limite di perdersi. Un piccolo passo falso può farlo ruzzolare. La sola facoltà che appartiene all’uomo e solo a lui, è la facoltà di giudizio. Tutti gli altri comportamenti dell’uomo li ritrovate presso l’animale, a diversi gradi più o meno sviluppati: l’obbedienza, l’abitudine… L’animale ha delle direzioni che gli vengono dall’istinto o dai tropismi. Si dirige verso le cose che gli sono semplicemente, praticamente, convenienti. La vita non deve essere soltanto un fatto pratico. Oggi si è creato questo mito pragmatico della vita. Che cosa è diventata la morale? E’ questo che è grave. L’eroismo non è mai un fatto individuale. Ogni individuo deve armonizzarsi. Come? Attraverso la tolleranza. E’ una virtù che nasce da una profonda saggezza. Essere tolleranti vuol dire uscire dalla obbedienza per arrivare a qualche cosa che parte dalla vostra coscienza. Ciò che è grave nel mondo d’oggi è che si vive di classificazioni. La classificazione non porta alla conoscenza, quindi non porta a questo bisogno eroico di perfezionarsi”(1966).
Di nuovo, qual è il messaggio che il film propone? Non aspettativi da me una risposta definitoria, e sarà difficile estrapolarla dal regista, oggi.
Sicuramente i fatti così com’erano, dei quali il film è rappresentazione, ci fanno ragionare sulla guerra, quindi sul potere. “Dov’è il potere in questo film?”, chiedeva qualcuno degli spettatori durante la discussione. Non credo sia utile indicarli nel film, né formulare una risposta da dizionario prendendo come base lo stesso. ‘Roma città aperta’ si esprime con una potente forza emotiva, che il documentario non riesce sempre ad avere, oltre a presentare un attenzione per la realtà che spesso i film non hanno: come nella tragedia greca, offre l’occasione per una catarsi e un primo approccio riflessivo di quel periodo storico: offre, quindi, molti spunti per delle riflessioni più ampie sul potere che vanno fatte, senza pretendere, però, di confermale con la pellicola stessa. Per questo non me la sento di azzardare discorsi più seri sul potere, anche perché non credo di poterlo fare ragionevolmente.
Concludo volendo precisare che ho inserito questi stralci di interviste o articoli, senza tagliarli ulteriormente, affinché vi facciate una vostra opinione; non è detto che io sia d’accordo con tutto quello che dice il regista, anzi, come succede spesso, a far parlare un artista fuori dal contesto a lui congeniale si rimane delusi.
Invito, però, coloro che ancora non hanno visto il film di cui ho scritto a vederlo al più presto.
Lorenzo Nicolai
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1 commenti:
Ovviamente inseriremo piano piano gli scritti promessi, potremmo metterci una vita... Non credo che nessuno dei fantastici lettori ne rimmarrà deluso. Ciao
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